Categoria: Rivista Online - Edizione - Febbraio 2016

 

Le “Politiche di Governance” possono essere definite come un sistema di relazioni internazionali in cui le politiche statali sono orientate a rimuovere i vincoli che “Entità” nazionali, etniche, culturali, linguistiche, religiose o sociali, possono porre alla libera circolazione dei beni e dei capitali su scala mondiale.

Il capitale, globalizzandosi, si emancipa dalla dipendenza politica dello stato-nazione. Agisce in prima persona. E si serve dei mercati che crescono sulle reti. Attraverso tali reti il grande capitale costruisce e gestisce la sua struttura di controllo dell’economia mondiale.  Lo strumento che permette di garantire la leadership nella globalizzazione è la struttura produttiva stessa.

Paradossalmente nell’era globalizzata è cambiata la funzione della forza militare che non ha più la funzione di penetrazione ed occupazione di un territorio ma quella di aprire dei mercati. Il problema di fondo non è più rappresentato dalla resistenza militare o dalle rivolte sociali, ma dalla resistenza culturale e politica di quel territorio ad aprirsi alle leggi del mercato.

I nuovi strumenti di penetrazione sono rappresentati: 

·    Dallo sviluppo dei monopoli come conseguenza del processo di concentrazione e centralizzazione dei capitali;

·    Dalla fusione del capitale finanziario e bancario con quello industriale e conseguente scomparsa della separazione tra proprietà e controllo;

·    Dalla prevalenza dell’esportazione di capitale sull’esportazione di merci;

·    Dalla formazione di aggregazioni monopolistiche internazionali che operano per zone di influenza.

Questa strategia globale si articola in forme diverse a seconda dei diversi gradi di sottosviluppo in cui si trovano i Paesi oggetto di investimento. A seconda dell’estensione delle infrastrutture, del tipo di cultura, della qualità delle capacità lavorative e della dotazione di risorse naturali che il capitale globale trova nei vari paesi, varia il tipo di mission aziendale.

Nel panorama mondiale sono evidenti i diversi approcci produttivi applicati, ci sono:

Paesi in cui prevale lo sfruttamento massiccio delle risorse naturali attraverso l’introduzione della monocoltura e la distruzione dei metodi e delle unità produttive tradizionali;

Paesi in cui si insediano fabbriche manifatturiere che producono a basso costo beni di consumo o beni intermedi a tecnologia semplice;

Paesi in cui vengono localizzate produzioni tecnologicamente avanzate ma standardizzate e a basso contenuto di innovazione (macchine utensili, automobili, parti di computer etc.).

Molti paesi del Sud devono fronteggiare cronici deficit dei loro conti esteri e quindi delle sistematiche spinte al deprezzamento delle loro valute rispetto alle monete forti. La conseguenza è che le ragioni di scambio peggiorano per tutti i prodotti esportati dal Sud del mondo, anche quelli del settore industriale.

Altro grave problema è rappresentato dall’accaparramento delle terre nel mondo da parte di aziende di stato, multinazionali, hedge funds. La geopolitica non può prescindere da queste considerazioni e da analisi sulla problematica della “food security”. I “compratori” elargiscono denari e promesse di ammodernamento; dicono che porteranno lavoro, irrigazione, tecnologia. Ma nessuno è in grado di controllare se lo fanno davvero e, peggio ancora, non ci sono strumenti coercitivi né sanzioni in caso di inadempienza.

Il mondo non ha ancora preso una posizione univoca sull’accaparramento delle terre “land grabbing”, una nuova forma di imperialismo agricolo e di nuovo colonialismo, realizzato non più con gli eserciti o i golpe pilotati ma attraverso il controllo della produzione alimentare.

Da non sottovalutare, nel medio tempo, il pericolo di perdita di biodiversità e il rischio che le popolazioni autoctone vengano condannate alla fame per affitti da pochi dollari l’ettaro. Occorre far rispettare le policy fissate durante il “Forum di Selinguè”, in Mali nel 2007, riguardo alla sovranità alimentare, il documento sancisce il principio per cui “il diritto derivante da un contratto di land grabbing non può essere fatto valere davanti a un tribunale, e riafferma la priorità dell’accesso alla terra per famiglie dei piccoli contadini rispetto ai colossi dell’agrobusiness”.

Gli aiuti economici che pervengono ai vari Paesi in via di sviluppo dovrebbero favorire il consolidarsi di una piccola borghesia necessaria al decollo di un sistema democratico popolare. Purtroppo dall’osservazione delle condizioni dei vari Paesi in via di sviluppo emergono chiaramente le difficoltà che la democrazia popolare incontra. La maggior parte di questi Paesi è governata da gruppi collegati agli investitori internazionali. Se si analizzano i comportamenti di queste classi dirigenti, è evidente che costoro hanno comportamenti che non hanno niente più a che fare con il popolo che rappresentano, sono espressione della nuova società che avanza, che ha diviso in modo netto la popolazione in due classi distinte e separate, quasi inconciliabili tra loro: una classe elitaria abituata ad operare a livello mondiale, detentrice dei simboli e delle conoscenze necessarie a far funzionare la società dell’informazione ed il mercato globale, e un sempre crescente numero di lavoratori in eccesso con poche speranze di trovare una occupazione stabile nella nuova economia globale ad alta tecnologia.

Il rischio è rappresentato da una nuova forma di democrazia coloniale che funziona, a differenza delle democrazie coloniali del passato, grazie alle “politiche di default”, attraverso la introduzione di una rete di automatismi giuridici, logistici, mediali che saltano completamente le regole giuridiche e politiche dell’amministrazione pubblica del territorio. Ci si legittima per procedure giuridiche, si costruisce tutta una legittimità completamente interna a queste procedure, e poi si rovescia il tutto nei confronti delle popolazioni prescelte.

Le politiche di governance attuate fino ad oggi se hanno permesso la libera circolazione delle merci e dei capitali, hanno anche fatto emergere una serie di discrasie che rischiano di mettere in crisi le società occidentali, come la competitività delle merci prodotte nei Paesi in via di sviluppo riduce la domanda di lavoro nei paesi sviluppati, dall’altra l’emigrazione dal Sud al Nord del mondo fa aumentare l’offerta di lavoro. Entrambi i processi contribuiscono a far cresce l’esercito di riserva, e quindi ad abbassare il salario, anche nei paesi occidentali.

Paradossalmente nella globalizzazione si concretizza un fenomeno sociale nuovo rispetto alle vecchie forme di neocolonialismo, lo sfruttamento dei Paesi in via di sviluppo è funzionale all’arretramento dello stato sociale nei paesi occidentali.

Nel nome della democrazia l’Occidente ha scatenato guerre militari in Afghanistan, Iraq, Yemen, Libia e Siria distruggendoli come stati nazionali. Nel nome della democrazia l’Occidente ha scatenato guerre intestine in Tunisia, Bahrain, Territori palestinesi e Egitto, destabilizzando i Governi nazionali e mettendo a repentaglio l’ordine pubblico con un pesante bilancio di vittime e danni, a beneficio degli estremisti islamici. A nessuno piacevano Saddam, Gheddafi, Ben Ali e Mubarak, ma non si può non prendere atto che le guerre scatenate nel nome della democrazia e dei diritti dell’uomo hanno distrutto degli Stati che comunque garantivano un livello accettabile di sussistenza, riducendo in povertà le popolazioni e consegnandole alla follia sanguinaria dei terroristi islamici.

In questa fase come occidente ci troviamo ad affrontare le migrazioni di qualche milione di cittadini afro-asiatici che sfuggono alle guerre e alcuni dalla fame, ma nel prossimo futuro, se non cambiano le attuali politiche di governance speculativa a vantaggio di nuove politiche di governance economiche, come Europa, ci troveremo ad affrontare migrazioni di decine di milioni di persone.

Le nuove politiche di governance economiche debbono favorire la nascita di micro imprese locali e della relativa classe media, che cerca con politiche attente di trovare le risposte socio economiche necessarie ai propri cittadini in loco, senza obbligarli a marce forzate che durano anche degli anni con i relativi rischi sulla sicurezza individuale.

Purtroppo anche le politiche di governance cominciano ad incontrare delle difficoltà considerato che il tipo di regolazione internazionale proposto non ha più nessun legame con il diritto naturale. Il punto è che le stesse agenzie di governance, nazionali o sovranazionali che siano, non rendono conto a soggetti politici come possono essere i cittadini del mondo o anche solo quelli di alcuni grandi paesi. Esse rendono conto a delle leggi dell’accumulazione che sembrano indipendenti dalla volontà umana.

Tali leggi assumono la forma di processi attenti a verificare e controllare i risultati ottenuti in seguito a scelte e strategie specifiche attuate, che nel loro complesso operano come automatismi funzionali alla stabilizzazione dell’equilibrio dell’economia globale. Si tratta di veri e propri meccanismi, che possono essere raggruppati in quattro aree disciplinari, quella commerciale, quella monetaria, quella terroristica e quella ideologica,

 E’ evidente che il sistema ha bisogno di una struttura globale riconosciuta che gli conferisca autorità e potere.  La difficoltà sta nel fatto che il carattere globale della finanza e dell’economia, avendo superato i limiti nazionali, ha bisogno di disciplinare gli stati nazionali stessi e di regolare le loro politiche. In altri termini la difficoltà sta nel fatto che un sistema globale avrebbe bisogno di una “Entità” pensante e dirigente, riconosciuta, mentre oggi è una struttura intrinsecamente acefala.