Categoria: Rivista Online - Edizione - Febbraio 2016

Fermo restando gli sforzi profusi dal Governo Renzi e dalla BCE per attenuare le conseguenze della crisi, continuano ad essere evidenti le ingiustizie ed i privilegi che danneggiano il Paese e fanno soffrire le persone, soprattutto i più deboli, i senza voce, senza parlare dei suicidi dei quali nessuno più parla.

Anche il sistema internazionale si è convinto che il Paese ha bisogno di una struttura politica e istituzionale nuova, in grado di esprimere una classe dirigente stimata dal popolo, capace di trovare risposte adeguate ai problemi dei tempi, nella misura in cui opera per l’interesse dei cittadini e per il bene comune.

La competitività rimane la questione centrale che la politica deve affrontare. Essa è legata alla ricomposizione del tessuto sociale. La competitività è un obiettivo da praticare, da attuare, dando spazio alle forze sane presenti sul territorio, ai movimenti, ai centri culturali, alle associazioni, ai mondi vitali, al terzo e quarto settore.

In un progetto politico le persone vi si debbono riconoscere, come identità, come proprio modo di essere, e vedere difesi gli interessi propri, ma soprattutto dei figli.

Il progetto politico deve definire quali interessi si vogliono trattare e conseguentemente identificare attraverso quali processi si vogliono dare risposte concrete, fattibili, funzionali alle esigenze, le dichiarazioni generali non portano più consenso.

In un sistema globale, altro aspetto fondamentale da non sottovalutare, è la capacità di individuare quali sono gli interessi reali che concorrono alla definizione della identità nazionale e attraverso quali processi si vogliono difendere. Il collante non può che essere l’individuazione dei caratteri comuni di questi processi, e dobbiamo riconoscere che Matteo Renzi non perde occasione per sottolineare tale aspetto.

Ma l’ostacolo al raggiungimento degli obiettivi che il Governo si è prefissati è rappresentato dalle cinque emergenze che affossano il Paese: l’emergenza democratica; l’emergenza rappresentatività; l’emergenza informazione; l’emergenza economica; l’emergenza burocratica.

L’emergenza democraticaè strettamente legata alla mancanza di certezze, i cittadini hanno l’impressione di una classe politica che “navighi a vista”. Mentre si concretizzano cambiamenti epocali, che generano incertezza, si sente la mancanza di una proposta politica capace di infondere sicurezza.

Il Governo guidato da Matteo Renzi, tra molte difficoltà, sta riuscendo a portare a casa la riforma del Parlamento. Questa riforma sicuramente concorrerà a modificare lo stallo parlamentare.

L’Italia ha bisogno di una classe dirigente in grado di elaborare una proposta politica capace di indicare il percorso sociale ed economico necessario a superare l’incertezza, che non è più di tipo congiunturale. Dobbiamo azzerare quel fatalismo che ci ha guidato per anni per cui l’incertezza veniva considerata contingente, convinti che in qualche modo e con l’aiuto di qualcuno la si poteva superare.

Da non sottovalutare la conseguenza sociale causata da questo stato d’animo di incertezza, che rischia di approfondire sempre più il fossato che divide il popolo sovrano da coloro che siedono nelle Istituzioni e negli Organismi statali.

I cittadini hanno preso coscienza che i diritti politici, grande conquista del secolo scorso, non sono più nelle mani del popolo ma in quelle di oligarchie finanziarie, basta ascoltare le dichiarazioni del Presidente americano Obama, per cui la democrazia è diventata uno strumento di facciata necessario per far eleggere, volta per volta, il gruppo dirigente designato dalla oligarchia finanziaria. Il problema vero è rappresentato dalle difficoltà che incontra questo gruppo dirigente designato ad attuare politiche capaci di garantire la giustizia sociale, fondamento di un sistema democratico basato sul suffragio universale.

Molti cittadini sono giunti alla conclusione che la chiamata alle urne non è più fatta per conoscere l’opinione degli elettori ma per confermare o meno gli interessi di coloro che occupano posti di potere nello stato e nelle istituzioni.

Questa situazione che sta degenerando danneggia il nostro Stato democratico, allontana sempre più i cittadini dal partecipare alla competizione elettorale, non considerata più come cardine della vita democratica.

L’emergenza rappresentatività. Al termine della seconda guerra mondiale il popolo italiano ha dimostrato una grande maturità democratica eleggendo coloro che erano rappresentativi, conosciuti, capaci di comprendere le esigenze delle famiglie, capaci di proposte utili a costruire uno sviluppo unitario e solidale.

Nel dopoguerra in piena società fordista la rappresentatività si è sviluppata all’interno del binomio capitale-lavoro.

In una società globalizzata si è modificato il rapporto tra il capitale ed il lavoro a vantaggio di un nuovo quadrilatero formato da capitale, lavoro, conoscenza, informazione, che ha favorito la società dei consumi.

Questa nuova società ha creato la figura dell’occupato-consumatore che non rientra affatto nella logica sociologica delle classi.

La nozione di occupato è di gran lunga più ampia del concetto di lavoratore in senso tradizionale e comprende tutte le larghe fasce di percettori di reddito, reddito da destinarsi al consumo dei beni, aumentati nel frattempo in numero e qualità.

Il limite della cosiddetta seconda repubblica è da ricercarsi nell’ipotetico bipolarismo, proteso alla continua ricerca di neocentrismo, in una società globalizzata, non più classista e in un conteso di politica monetarista.

Questa scelta ha comportato politiche di carattere tecnocratico e non più popolare. Queste politiche hanno rallentato il processo di sviluppo delle categorie emergenti che chiedevano e continuano a chiedere il riconoscimento di un nuovo status socio-economico, anzi hanno quasi annientato la classe media.

Queste trasformazioni sociali hanno modificato il concetto di appartenenza alla classe o alla categoria, per cui le Organizzazioni della rappresentatività politica, economica, sociale e sindacale appaiono all’iscritto o al militante non più capaci di rappresentare il proprio status sociale, e la prima reazione si manifesta nell’isolamento, nella ricerca di soluzioni nel privato o all’interno di gruppi ristretti.

Il calo di rappresentatività è dovuto in parte al cambiamento sociale e in parte al crescente numero di esponenti delle organizzazioni che hanno privilegiato l’interesse personale a quello della categoria rappresentata. Questo fenomeno si è accentuato con le Regioni, per cui la rappresentanza non viene più decisa democraticamente attraverso il sistema elettorale ma in forma oligarchica con nomine concertate a tavolino.

Questo decadimento etico delle finalità generali da parte dei rappresentanti delle organizzazioni, ha reso più povero e confuso il confronto, con la conseguente perdita di consenso. L’incapacità di fare proposte politiche di interesse generale a vantaggio di provvedimenti settoriali e di interessi particolari, ha incrementato la sfiducia nelle istituzioni e la rottura del patto sociale preesistente.

L’emergenza informazione. La società moderna viene anche definita “società dell’informazione”. Il settore riveste un ruolo fondamentale nella elaborazione del costume sociale, nella produzione e diffusione di modelli comportamentali e degli stili di vita propri della cultura prevalente.

L’universalità e la pervasività dei media fa sì che essi sono diventati i canali di costruzione dell’opinione pubblica per quanto riguarda la diffusione dei gusti, delle propensioni e degli orientamenti sociologici più diffusi, in base a precisi interessi economici e politici.

Il conduttore in queste trasmissioni non predilige l’informazione ma è il regista incaricato di indirizzare il messaggio, come avviene negli Stati a democrazia formale.

Oggi grazie alla rete che permette in tempo reale la circolazione di notizie e immagini, sottraendole alla valutazione sulla opportunità o meno di renderle pubbliche, il sistema è più aperto.

Anche la rete ha dei limiti, come il prevalere della opinione di chi scrive sui fatti, sicuramente il tempo e l’evoluzione dei format permetterà di dare spazio ad una informazione più neutra, a vantaggio della società civile in generale.

La vera emergenza dell’informazione oggi è rappresentata dal fatto che, spesso, il messaggio viene fatto circolare non in funzione della ricerca della verità, ma come strumento per affermare il “pensiero unico dominante” della parte a cui appartiene la rete.

Ma il pericolo maggiore è oggi rappresentato da una “governance superiore” che sistematicamente crea notizie che debbono occupare tutta l’attenzione dei media per un breve periodo, poi delle quali non si parla più, ma che servono a distogliere gli utenti dai veri problemi che li toccano quotidianamente.

L’emergenza economicaè frutto delle emergenze che affliggono il Paese da decenni, alimentata da una classe politica e burocratica tutta tesa ad aumentare il debito pubblico per avere a disposizione le risorse finanziarie necessarie a favorire interessi.

Il declino economico del Paese è dovuto a diversi fattori:

·        Il primo è rappresentato dalla scelta di politica economica fatta agli inizi degli anni ottanta di rinunciare a settori strategici come il metalmeccanico, il chimico ed il tessile;

·        Il secondo, di aver prodotto una normativa riguardante le imprese, mutuata dal sistema industriale anglo-tedesco, per cui, in un Paese come l’Italia, con oltre tre milioni di micro   imprese, che occupano di media due dipendenti, negli ultimi trenta anni sono state introdotte norme e procedure identiche, sia per il grande gruppo industriale che per l’artigiano che lavora con un apprendista;

·        Il terzo, una continua produzione di norme farraginose, che necessitano di continui decreti attuativi e di circolari esplicative, scritte con gergo burocratese e infarcite di richiami ad altre norme. Normative che sulla stessa competenza vedono sovrapporsi il controllo di più enti che non dialogano tra loro e complicano la soluzione del caso, anche con la disponibilità dell’imprenditore a risolvere il problema;

·        Il quarto, una riforma di natura scolastica dell’apprendistato che sta distruggendo questo istituto;

·        Il quinto, avere accettato passivamente che decine di migliaia di imprenditori di delocalizzassero la propria impresa, perdendo milioni di posti di lavoro;

·        Il sesto, un carico fiscale che la micro impresa difficilmente riesce a sopportare;

·        Il settimo, un sistema bancario ricurvo su se stesso non più in grado di sostenere le piccole imprese,

·        L’ottavo, un sistema burocratico non in grado di snellire le procedure che fanno perdere decine di giornate di lavoro al piccolo imprenditore.

L’emergenza burocrazia.  La burocrazia era stata pensata come uno strumento di progresso, in grado di garantire una positiva terzietà statuale, rispetto alle forme organizzative basate sull'arbitrio e sull'esercizio individuale e dispotico di un potere personale, disponendo il potere in mano alla legge.

Purtroppo già nel secolo precedente erano emerse delle carenze del sistema burocratico che era stato accusato di: rigidità, lentezza, incapacità di adattamento, inefficienza, inefficacia, lessico difficile o addirittura incomprensibile (il cosiddetto burocratese), mancanza di stimoli, deresponsabilizzazione, eccessiva pervasività, tendenza a regolamentare ogni minimo aspetto della vita quotidiana.

Tali fenomeni dipendono strettamente da elementi intrinseci al modello burocratico, che tende ad espandersi per perpetuare ed aumentare il proprio potere, erodendo al contempo le responsabilità individuali.

Queste incrostazioni storico-funzionali in Italia si sono aggravate per alcuni aspetti peculiari di una classe politica tesa alla continua ricerca del consenso elettorale a tutti i costi.

Agli inizi degli anni ’90, il sistema dei partiti, incapace di proporre politiche attive, atte a favorire l’occupazione, pensò bene di utilizzare la pubblica amministrazione come strumento per creare posti di lavoro sottopagati ma che garantivano il consenso, tanto a nessuno interessava l’aumento del debito pubblico.

Ma ogni qualvolta si incrementa l’organico pubblico è necessario giustificarlo con una “creazione” del carico di lavoro degli uffici, ecco allora l’aumento delle procedure, spesso su interpretazione dell’ufficio, sfruttando la farraginosità della legge alla quale si fa riferimento.

Con il processo che va sotto il nome di “Mani Pulite”, la burocrazia si sostituì alla politica nel momento decisionale. Il potere di firma del provvedimento passò dal politico che ricopriva l’incarico al dirigente dell’ufficio.

Contestualmente si fece strada una strategia tendente a rendere sempre più complessa e meno chiara la macchina burocratica statuale, con l’emissione di continue circolari e relativi chiarimenti, con la sovrapposizione di competenze di più uffici statali sulla stessa materia, con la produzione, attraverso gli uffici legislativi, di norme continuamente modificate che a loro volta fanno riferimento ad altre norme delle quali abrogano o integrano aspetti particolari.

Questa modalità operativa è riuscita ad escludere completamente il cittadino come soggetto attivo del sistema statuale, obbligandolo, sistematicamente, ad andare a farsi interpretare, a pagamento, la norma. E ogni qualvolta che la demagogia politica ha parlato di semplificazione si è assistito ad una aumento delle procedure.

Questa normativa ha dato un grande impulso alla corruzione definita “dei colletti bianchi” che se ne sono ben guardati dal far approvare leggi che immettessero nel nostro codice altri istituti in grado di combattere questo sistema corruttivo-concertativo.

Mentre la politica si accontentava delle dichiarazioni, la burocrazia continuava a gestire il bilancio pubblico ai vari livelli, con i casi scandalosi avvenuti nel sud per il mancato utilizzo dei fondi comunitari. Nessuno è andato a verificare se il mancato utilizzo dei fondi fosse dovuto a mancanza di progetti o a ostacoli messi in essere da qualcuno che non vedeva “riconosciuto” il suo ruolo.

Il Parlamento ha commesso una omissione gravissima non richiedendo una dichiarazione patrimoniale a quei dirigenti e funzionari che avevano titolo a decidere sui finanziamenti.

Già Max Weber aveva intuito il pericolo quando denunciava che i grandi Stati nazionali moderni correvano il rischio di veder spossessati gli organi rappresentativi dallo strapotere burocratico.  Entità così vaste necessitano infatti di strutture burocratiche molto articolate e invasive, così ramificate da diventare potenti e conservatrici. Il cittadino, nella società di massa, si trova così schiacciato, ridotto a un suddito formalmente titolare dei diritti civili. 

Alla fine dell’ottocento tre filosofi italiani, Mosca, Pareto e Michels, nell’analizzare i comportamenti ed il ruolo delle élite, denunciarono il rischio del peso che la burocrazia avrebbe assunto: un potere spersonalizzante, monolitico, in grado di inficiare la democrazia stessa, creando privilegi inediti e bloccando l’economia.

Il Governo Renzi deve riuscire a limitare la burocrazia, evitando che continui ad invadere ogni aspetto della vita quotidiana ed economica. Tutto è immobile, nulla è risolvibile, vivere e lavorare in questo Paese è diventato difficilissimo.  La soluzione? sembra non esserci, non esiste forza in grado di scardinare le resistenze cardaniche della giungla normativa e della incrostazione burocratica. Il Governo Renzi deve dimostrare che non vuole una classe dirigente che vive di politica o di finanziamenti pubblici, ma vuole una classe dirigente in grado di eliminare procedure inutili e dannose all’economia, riportando la burocrazia a svolgere il suo ruolo storico di razionalità, imparzialità e impersonalità a difesa dello stato.

In Italia ci sono circa 4,5 milioni di imprese, di queste all’incirca solo 500 mila fanno buoni profitti.

Gli altri 4 milioni di imprese contraddicono la regola fondamentale dell’economia anglosassone per la quale una impresa nasce per fare sempre più profitto, queste imprese fanno poco profitto.

Questi 4 milioni di imprese danno fastidio per capacità di sopravvivenza, nonostante che le banche non concedono loro credito, nonostante che debbono pagare tasse sulle perdite, nonostante il deficit della rete infrastrutturale, eppure riescono a stare sul mercato.

Questi 4 milioni di imprese rappresentano un modello alternativo, considerarle imprese inefficienti è un errore, il loro oltre ad essere un modello di profitto è un modello di controllo e gestione delle risorse reali, è un modello che consente ad ogni persona di avere un ruolo nella società, un ruolo produttivo, di contribuire con il proprio lavoro al benessere della società locale, di costruire per se e per i propri congiunti e amici una prospettiva di vita.

Il Governo Renzi deve dedicare più attenzione alla realtà effettiva del Paese, l’dea che l’economia possa essere trainata da investimenti esteri, stante la situazione, se non porta a termine le riforme, i dati che circolano a livello di Banca Mondiale tra i grandi investitori vanno in direzione opposta.

La sottostante tabella sulla “Competitività Mondiale 2014-2015”, elaborata su dati “The Global Competitiveness Index”, illustra una realtà italiana molto complessa.

La “geo finanza” con le sue scelte può incidere sullo sviluppo economico di un paese, ma queste non sono solo guidate da interessi strategici, nella scelta incidono tutta una serie di fattori di competitività presi a campione da modelli econometrici che misurano la maggiore o minore possibilità di successo dell’investimento programmato.

Alla “geo finanza” interessa sempre meno se quel paese oggetto di attenzione sul piano economico fa parte del G7 o del G20, interessano sempre più una serie di parametri economico-sociali-politici che possono influire negativamente sull’investimento programmato.

A livello globale si studia la competitività dei vari paesi attraverso l’analisi degli indicatori macroeconomici e microeconomici dei singoli paesi presi in esame.

Il World Economic Forum definisce competitività come l’insieme delle politiche istituzionali e dei fattori sociali ed economici che determinano il livello di produttività di un paese. In questi termini il livello di competitività è un indicatore del livello di prosperità che può essere raggiunto.

Contestualmente il livello di produttività determina anche i tassi di interesse ottenuti dagli investitori, i quali sono interessati a che quella economia cresca più velocemente possibile.

Il modello utilizzato per la ricerca prende in esame circa 100 indicatori economico sociali del paese oggetto di analisi, e questi indicatori sono raggruppati in 12 indici, chiamati pilastri, che a loro volta sono suddivisi in tre macro aree: la prima prende in esame i fattori base dello stato, le istituzioni, le infrastrutture, la macroeconomia e l’ambiente, il sistema scolastico di base e quello sanitario; la seconda prende in esame il sistema educativo e la formazione, la bontà e l’efficienza del mercato, l’efficienza del mercato del lavoro, il sistema finanziario, l’ammodernamento tecnologico, la dimensione del mercato; la terza prende in esame la qualità degli investimenti e le innovazioni.

Come Italia su 144 Paesi esaminati siamo al 49° posto nel mondo. Sui requisiti di base siamo al 54°. Sui requisiti di efficienza siamo al 47°. Sui requisiti di sviluppo siamo al 29°.

Ma sui pilastri che interessano i grandi investitori siamo oltre il centesimo posto: pilastro “Istituzioni” 106°; pilastro “Macroeconomia e Ambiente” 108°; pilastro “Efficienza Mercato del Lavoro” 136°; pilastro “Sistema Finanziario” 119°.

Questa è la realtà che il Governo Renzi si trova di fronte, e già a livello internazionale dei grandi investitori si mormora che il Governo italiano non riuscirà a fare in tempo tutte le riforme necessarie programmate.

Un discorso chiaro fatto al Paese sicuramente troverà il consenso necessario a superare le diatribe di una classe parlamentare nominata, puntando sulla crescita di una nuova classe politica espressione dei territori e delle loro esigenze, in grado di capire le difficolta sociali ed economiche che vivono milioni di famiglie.

Una nuova classe politica che, se pure in assenza delle sezioni dei partiti, sia espressione delle esigenze generali dei cittadini, in grado di esprimere una rappresentatività che nasce da militanza reale e non virtuale.

 

TABELLA COMPETITIVITA’ MONDIALE 2014-2015 (144 Paesi esaminati)

Requisiti Base

Requisiti di Efficienza

Requisiti Sviluppo

Istituzioni

Infrastrutture

Macroeconomia

E Ambiente

Sistema

Sanitario

Scolastico

Educazione

Formazione

Efficienza

Mercato

Efficienza

Mercato

Lavoro

Sistema

Finanziario

Ammodernamento

Tecnologico

Dimensione

Mercato

Qualità

Investimenti

Innovazione

Italia al 49° posto nel mondo

54° posto nel mondo

47° posto nel mondo

29° posto nel mondo

106°

26°

108°

22°

47°

73°

136°

119°

38°

12°

25°

35°

Scheda elaborata da Corrado Tocci – Dati “The Global Competitiveness Index